Sessantasei anni suonati, e suonati bene, Mark Knopfler non è mai stato intaccato dalla spettacolarizzazione. Artista essenziale e dunque per questo ossimoro, ancor più nei cacofonici Anni Ottanta che lo hanno visto scintillare, non ha mai conosciuto l’eccentricità. La cosa più strana che ha fatto, peraltro inspiegabilmente, è stata salire sul palco con la fascetta antisudore, neanche fosse un Bjorn Borg della chitarra, indossando oltretutto stivaletti rossi non poco raggelanti. Era trent’anni fa, quando con i Dire Straits incideva uno dei live più belli nella storia della musica (Alchemy).  Tanto tempo è passato: tanto, ma poi non troppo. Dotato di un carisma che scaturisce per contrasto rispetto alle maniere sobrie e quasi “impiegatizie”, non ha mai inseguito fronzoli. Ieri come oggi. Sta attraversando l’Italia, stasera sarà a Lucca, ieri era a Roma e lunedì a Barolo al Collisioni Festival. Chi lo segue a ogni data, e ne commenta le gesta nel monumentale forum italiano “Knopfleriani.it”, racconta che a Piazzola sul Brenta due sere prima era parso più in forma. Qualche sbavatura, mixaggio inizialmente sbagliato, voce che a tratti non si sentiva. Il concerto, di fronte a una piazza stracolma, ha funzionato lo stesso. Quattordici brani e decine di chitarre cambiate. Ogni volta che ne chiedeva una nuova, lanciava il segnale di un assolo imminente. Un rituale sempre uguale a se stesso: la liturgia dell’epifania chitarristica, la quiete prima non tanto della tempesta quanto della pentecoste sonora. Knopfler non piace ai (presunti) puristi e agli (ancor più presunti) ribelli: troppo normale, mai un vizio o giù di lì. Persino negli Ottanta il suo suono si era stabilizzato in quella terra di mezzo del “commerciale ma non troppo”. Non era sperimentazione, ma non era neanche – per dirla con Jannacci – brutta musica fatta solamente con la batteria. Knopfler era e resta un innovatore che ti regala il capolavoro con la semplicità di chi ti offre un buon caffè. Ama tanto la musica e poco la ribalta. Ha spesso privilegiato collaborazioni con amici persino più famosi di lui, beandosi di una sorta di semi-clandestinità di lusso. Quando suonava con Bob Dylan era il meno noto dei due, e gli piaceva. Quando duettava con Eric Clapton era il meno divo dei due, e gli andava bene così. Poi, con calcolata discrezione, si sedeva accanto a Slowhand e disegnava arabeschi discreti, magari durante una Layla acustica. Era allora che, definitivamente, capivi la sua natura: come certi attori non protagonisti nei film che porteresti sull’isola deserta, Knopfler era (è) fondamentale pur non sembrandolo. Se fosse un calciatore, e non uno dei chitarristi più grandi di sempre, Knopfler non sarebbe un fantasista aduso al dribbling ma un regista intriso di garbata perfezione. Un Dino Sani, un Redondo, un Pirlo. Camicia blu e jeans d’ordinanza, capelli (pochi) rasati, Knopfler è parso a Barolo un po’ stanco nella esecuzione di Romeo and Juliet, eternata da troppi smartphone illuminati come fastidiosi ceri votivi, e di Sultans of Swing, eseguita probabilmente controvoglia. Il repertorio dei Dire Straits, che pure è invecchiato benissimo (riascoltare Communiquè per credere), deve suonargli ormai distante. Poi però ha elargito l’epica Telegraph Road, i cui cinque minuti finali – incendiari, enormi, definitivi – valgono una carriera e anzi una vita. La sua produzione come solista è meno nota, per quanto vendutissima. Dal recente Tracker ha proposto solo Broken Bones. E’ comunque bastata Hill’s Farmer Bluesper capire che il talento è ancora vivido.So Far Away è una scheggia immutata degli Ottanta, Your Latest Trick è morbida come un tempo, le atmosfere folk-irish diPrivateering gli piacciono proprio tanto. E Going Home non smette di commuovere. Nessuno ha mai capito come Knopfler sia riuscito, letteralmente, a inventare un suono. Allergico agli orpelli come al plettro, è ancora ben dentro la mediamente nota istantanea di Douglas Adams: «Mark Knopfler ha la straordinaria capacità di far emettere alla sua Schecter Custom Stratocaster dei suoni che paiono prodotti dagli angeli il sabato sera, quando sono esausti per il fatto di essere stati buoni tutta la settimana e sentono il bisogno di una birra forte». Gli angeli suonano ancora, ora accompagnati da fratelli in armi e ora no.

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(Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2015)